I 48 GIORNI DELLA PRIGIONIA DI MUSSOLINI Da Villa Savoia al Gran Sasso
Luigi Romersa
 
1a parte
 
    II destino di Mussolini, dal momento dell'arresto, venne deciso nel corso di una riunione segreta che si svolse al Viminale il 27 luglio del 1943 e alla quale parteciparono il maresciallo Badoglio, il capo della polizia Senise e il capo della polizia militare del Comando Supremo, generale Polito. Su suggerimento di Senise fu stabilito di inviarlo su un'isola e di affidarne la custodia ai Carabinieri.
    Convocato su due piedi il comandante dell'Arma, generale Cerica, Badoglio gli impartì personalmente le istruzioni per la sorveglianza dell'ex Capo del Governo, ordinando, fra l'altro, di sparare a vista contro chiunque avesse tentato di impadronirsene con la forza. "Piuttosto che lasciarlo cadere nelle mani di chicchessia o lasciarlo fuggire - disse - bisogna sopprimerlo ! . . . " Che questo corrispondesse in realtà ai propositi del Maresciallo non v'è dubbio e lo si desume, del resto, da quanto, il 2 agosto, Badoglio rispose a Bonomi allorché il vecchio uomo politico gli domandò dove "avessero messo Mussolini".
    "È al sicuro, state tranquillo" - disse - "È molto lontano da qui e non uscirà vivo dal luogo dove è custodito...".
    Intanto, nella caserma dei Carabinieri, il Duce aspettava che, da un momento all'altro gli annunciassero la partenza per la Rocca delle Caminate, nella quale aveva espresso al Re il desiderio di ritirarsi a vita privata. Il messaggio, portatogli all'una di notte dal generale Ferone, sembrava in effetti più che rassicurante. Intestato a "S. Eccellenza il Cav. Benito Mussolini" diceva: "Il sottoscritto Capo del Governo, tiene a far sapere a V.E. che quanto è stato eseguito nei vostri riguardi è unicamente dovuto al vostro personale interesse, essendo giunte da più parti precise segnalazioni di un serio complotto contro la vostra persona. Spiacente di questo, tiene a farvi sapere che è pronto a dare ordini per il vostro sicuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare".
    La risposta, il Duce la dettò personalmente. "Desidero ringraziare il Maresciallo d'ltalia Pietro Badoglio per le attenzioni che ha voluto riservare alla mia persona. Unica residenza di cui posso disporre, è la Rocca delle Caminate dove sono disposto a trasferirmi in qualsiasi momento. Desidero assicurare il Maresciallo Badoglio, anche in ricordo del lavoro comune svolto in altri tempi, che da parte mia non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma sarà data ogni possibile collaborazione. Sono contento della decisione presa di continuare la guerra con gli alleati, così come I'onore e gli interessi della Patria, in questo momento, esigono, e faccio voti che il successo coroni il grave compito al quale il Maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di S.M. il Re, del quale, durante 21 anni, sono stato leale servitore e tale rimango. Viva l'ltalia!"
    Partito il generale Ferone, dopo aver conversato con il suo segretario De Cesare e bevuto un tè offertogli dalla moglie del colonnello comandante la caserma, Mussolini s'allungò su un divano e riposò per qualche ora. Si trattò di un sonno agitato, più volte interrotto, giacché i pensieri che gli facevano ressa nel cervello non gli davano tregua.
    In città, dell'accaduto si sapeva poco o nulla; Roma, esausta dalla calura, era più silenziosa che mai.
    Ma intanto, in Germania, presso il suo Q.G., Hitler era furibondo e la sua prima reazione fu di sottoporre l'Italia a pesanti rappresaglie; intendeva colpire la monarchia, il governo e la flotta, poiché aveva intuito che, a breve scadenza, Roma si sarebbe arresa agli angloamericani.
    La decisione di liberare ad ogni costo il Duce, fu immediata e difatti, già il giorno 26  luglio, convocò diversi ufficiali per sceglierne uno cui affidare la delicata e difficile missione. La scelta cadde sul capitano delle "SS" Otto Skorzeny la cui taglia atletica e la cui sicurezza di modi lo impressionarono in maniera particolare . L' ufficiale, fra I'altro, era conosciuto e raccomandato da un noto gerarca, Ernst Kaltenbrunner, ben visto da Hitler per la sua fedeltà e per il fatto di essere nato in Austria, a Linz, città che al Fuhrer era oltremodo cara. Lo "squadrò" con un'occhiata da capo a piedi e gli disse: "Vi affido un incarico di enorme importanza, la liberazione del più grande degli italiani, Mussolini, che io non voglio e non posso abbandonare nel momento del pericolo. . ." .
    Con un simile "viatico", Skorzeny si mise subito al lavoro. Incontrò Himmler poi, insieme con il generale Kurt Student, comandante di una divisione di paracadutisti, si recò a Roma per scoprire il luogo in cui il Duce era tenuto prigioniero.
    Mussolini intanto, convinto di non essere in stato di arresto ma, come diceva Badoglio nella sua lettera, semplicemente sotto la "protezione" dei Carabinieri, venne avvertito dell'imminente partenza che considerò risolutiva della situazione venutasi a creare dopo le decisioni del Re. L' incarico di "accompagnare" il prigioniero fu affidato a un tipo corpulento, in uniforme di generale; si trattava di Polito, capo della polizia militare del Comando Supremo il quale, allorché Mussolini gli domandò perché mai non si dirigessero verso la Romagna, rispose che aveva ordine di "non rivelare la destinazione cui erano diretti". Il segretario del Duce, De Cesare, era stato trasferito subito al carcere di Regina Coeli, e questo rappresentò la fine delle speranze, per l'ex Capo del Governo, di raggiungere, come gli era stato invece promesso, la Rocca delle Caminate.
    Giunti a Gaeta, sul molo, Mussolini e Polito trovarono l'ammiraglio Maugeri; I'imbarco sulla corvetta "Persefone" che doveva trasferire il prigioniero su un'isola avvenne di sera, presenti il colonnello dei Carabinieri Pelaghi e un gruppo di militi in funzione di scorta.  Il battello salpò all'alba.
    A Roma, nel frattempo, al termine di un movimentato Consiglio dei ministri, Badoglio, maestro di camaleontismo politico, telegrafava a Hitler, di cui temeva le reazioni, in questi termini: "La guerra per noi continua nello spirito dell'alleanza. Tanto tengo a confermarvi con la preghiera di voler ascoltare il generale Marras che verrà al vostro Q.G. da me incaricato per una particolare missione per Voi". Chiedeva un colloquio del Re con il Fuhrer, ma il Fuhrer, appena gli fu chiesto, ignorò totalmente il desiderio di Vittorio Emanuele III. Approfittò, anzi, della circostanza per lamentarsi, con parole dure e seccate, del trattamento inflitto al "suo amico Mussolini". Convinto, anzi, che sia il Sovrano italiano che Badoglio fossero in malafede, richiamò Skorzeny e gli confermò I'ordine di liberare ad ogni costo il Duce. Da Gaeta, la corvetta "Persefone" si mise in rotta per Ventotene dove giunse alle 5 circa del mattino, ma sia Polito che Pelaghi, dopo una verifica a terra, decisero di proseguire per Ponza, dove, a loro giudizio, sarebbe stato più facile sistemare il "prigioniero".
    Durante il viaggio, Mussolini parlò a lungo con I'ammiraglio Maugeri e, fra I'altro, gli confessò il suo disappunto per I' insistenza con la quale Rommel volle inseguire gli inglesi fino a El Alamein pur sapendo di non disporre dei mezzi per poter proseguire I'avanzata. "Rifiutò i suggerimenti di Bastico e di Kesselring" - disse - "Si oppose ad ogni proposta di ritirarsi su una linea più arretrata e più difendibile, impedendo con questo I'occupazione di Malta, che era giunta alla fine. Altro errore compiuto dai tedeschi I'attacco alla Russia che i nostri alleati pensarono di liquidare in pochi mesi. Hitler mi raccontò che subirono un inganno che non esitò a definire "diabolico"... Più volte, ho consigliato il Fuhrer di venire ad un accordo con Mosca; I'ho fatto sia a Salisburgo che a Feltre, ma inutilmente. . . ".
    Ponza, secondo Polito, era la sede idonea. Fu scelta una casa verdastra a due piani. Nonostante si parlasse sempre di "trasferimenti compiuti nella massima segretezza", sull'isola tutti sapevano dell'arrivo del Duce e la gente vi assistette, infatti, dai balconi e dalle finestre che si affacciavano sul porto. Quando Mussolini raggiunse la casa che doveva essere la sua prigione, e in effetti lo fu, a chi lo scortava disse che era stanco e avrebbe desiderato un letto per riposare. Lo condussero allora in una stanza squallida e semivuota dove c'era soltanto una rete senza materasso e senza lenzuola. Lo sgomento assalì il prigioniero il quale, dopo uno scatto di ribellione e un inutile "basta!", pronunciato a denti stretti, altro non poté fare che sedere in terra e, con sgomento, prendersi la testa fra le palme delle mani. Anche quella, comunque, era una maniera per umiliarlo. Chi cercò Polito e il colonnello Pelaghi per riferirgli le richieste del Duce, non li trovò; come se la faccenda non li riguardasse, tranquillamente se ne erano andati a colazione.
    I primi segni di comprensione e d'amicizia, Mussolini li ebbe da due marescialli dell ' Arma, Avallone e Sebastiano Marini, i quali gli si avvicinarono con estremo rispetto e con gli occhi gonfi di lacrime. Marini, anzi, provvide a fargli preparare un brodo caldo e gli portò del pane, un uovo e un po' di frutta.
    A Roma, il governo s'era quasi dimenticato del "prigioniero" e Badoglio e compagni ad altro non pensavano che a sfuggire ad eventuali, temute rappresaglie tedesche e a prendere contatti con gli Alleati, ancora nemici, per la conclusione di un rapido armistizio.
    Il 29 luglio, il Duce compiva 60 anni; per la circostanza ricevette un messaggio augurale di Goering e, tramite Polito, poté inviare una lettera alla consorte Rachele, ignara del sito in cui si trovava il marito. Sapeva soltanto che era vivo e ne era stata informata dalla propria parrucchiera la quale aveva ricevuto una confidenza, in tale senso, da un'altra cliente, la Principessa Mafalda che aveva parlato anche della perplessità del Re, suo padre, per quanto era accaduto a Villa Savoia. A Donna Rachele, quasi contemporaneamente, era giunta un'altra missiva che l'aveva fatta trasecolare: Badoglio la invitava ad inviare indumenti e denaro, senza di che, egli specificava "non si sarebbe potuto provvedere al mantenimento del prigioniero".
    A mano a mano che passavano i giorni, la crisi seguita agli avvenimenti del 25 luglio, appariva più evidente e drammatica e a constatarne gli effetti furono, per primi, coloro che I'avevano provocata. A Grandi, infatti, incontrato al Quirinale ai primi di agosto del 1943, il Ministro della Real Casa, Acquarone, disse: "Badoglio ci sta portando alla rovina e anche il Re è di questo parere.. . ".
    Dopo minuziose ricerche, alla fine di luglio, i tedeschi vennero a sapere che Mussolini si trovava sull'isola di Ponza. Informato da Himmler, il Fuhrer incaricò l'ambasciatore Mackensen di chiedere notizie direttamente al Re e di domandare, inoltre, l'autorizzazione di visitare il "prigioniero". Per il Sovrano, rispose Badoglio: "Una visita non è assolutamente opportuna. Se il Fuhrer vuole, può scrivergli".
    Il 1 agosto, con un peschereccio, arrivarono a Ponza una cassetta di frutta e due bauli contenenti abiti e biancheria, inviati da Donna Rachele poiché dal giorno dell'arresto, il Duce era rimasto con gli abiti che aveva indosso quando si recò in udienza dal Sovrano. Con i vestiti, la consorte di Mussolini aveva mandato al marito il libro la "Vita di Cristo", del canonico Ricciotti, trovato aperto su un tavolo nella sua stanza a Villa Torlonia, e una busta con dentro una fotografia del figlio Bruno, una lettera di Edda e diecimila lire.
    Quale fosse nella capitale la situazione politica lo si può desumere da quanto si dissero il conte Volpi di Misurata e il maresciallo Rodolfo Graziani in occasione di un loro incontro al quale, per qualche minuto, partecipò anche Dino Grandi che, alla domanda se i firmatari del suo ordine del giorno avevano ottenuto quello che in effetti si erano prefissi, rispose secco "No" e, infilata la porta, se ne andò. Rimasti soli, Volpi disse al Maresciallo: "Caro Graziani, che disastro si prepara: Badoglio è un testardo ambizioso e non è affatto preparato per un incarico così grave. Il  Re è sempre più perplesso circa le conseguenze di quanto è accaduto. Sa cosa ha detto a un funzionario di sua fiducia? Ha detto testualmente: "Temo che abbiamo fatto una corbelleria!".
    Il riacutizzarsi dei dolori duodenali, costringeva il Duce a lunghi periodi piegato su se stesso, seduto sul bordo del letto, in quella stanza dai muri a calce, nella quale la luce del sole e le voci che giungevano di fuori erano il solo contatto con il mondo esterno. Rachele, intanto, con un viaggio inenarrabile, accompagnata dal generale Polito che non perdette l'occasione per renderle più penoso il lungo trasferimento, raggiunse la Rocca delle Caminate dove trovò i figli Romano e Anna Maria.
    "E Gesù uscì solo, non gli era dappresso neppure un amico ! " .
    La Messa per Bruno venne celebrata secondo le intenzioni del padre, ma il Duce non poté assistervi come avrebbe voluto, perché proprio nella notte fra il 6 e il 7 agosto lasciò Ponza, diretto alla Maddalena. La partenza avvenne poco dopo la mezzanotte del giorno 6 con un caccia, a bordo del quale c'erano I'ammiraglio Maugeri e 80 carabinieri di scorta.
    Il mare grosso, rese il viaggio da Ponza alla Maddalena, oltremodo penoso. Nonostante lo sballottamento della nave, però, Mussolini e l'ammiraglio Maugeri, che fungeva da "accompagnatore", parlarono a lungo della guerra, della discutibile resa di Pantelleria e di Augusta, dell'invasione della Sicilia e del funzionamento dello Stato Maggiore, dove i contrasti, tra gli alti gradi, erano all'ordine del giorno.
    I rapporti con i tedeschi, intanto, si trascinavano in un'atmosfera di ambiguità e di diffidenze.
    A Tarvisio, il 6 agosto 1943 si riunirono il Ministro degli Esteri Guariglia, il Capo di S.M. Generale, generale Ambrosio, Von Ribbentrop e il maresciallo Keitel. Da parte dei tedeschi, lo scopo di quel convegno era di sondare le intenzioni dei governanti di Roma, mentre per gli italiani si trattò di un'altra occasione per ingannare I'alleato,  simulando, con frasi di circostanza, la continuazione del conflitto e l'identità di obiettivi delle due nazioni. In realtà, il ministro Guariglia aveva già inviato, per via aerea, il 4 e il 5 agosto, a Lisbona e a Tangeri, suoi emissari per chiedere di trattare con gli angloamericani. A tali "ambasciatori" segreti, per dimostrare le "buone intenzioni" dei mandanti, erano state fornite, perché le offrissero al nemico, precise indicazioni sulla dislocazione delle truppe germaniche in Italia. Durante la discussione a Tarvisio, i due capi di Stato Maggiore si urtarono violentemente e Keitel, resosi conto di quanto stava preparando Ambrosio, interruppe il colloquio e con il suo aiutante si recò oltre confine per telefonare al Fuhrer e avvertirlo che occorreva dar corso al piano, già predisposto, per l'invio di altre truppe nella Penisola perché, disse: "Sono certo che gli italiani sono già pronti a tradirci" .
    Quando la nave che portava Mussolini giunse nel porto della Maddalena, al piroscafo s'accostò un motoscafo con a bordo l'ammiraglio Brivonesi, comandante della Piazza, il quale prese in "consegna" Mussolini cui era stata destinata, come residenza, villa Weber, una costruzione in mezzo a un giardino di pini, sorvegliata da numerosi carabinieri .
    IlI Duce, fu autorizzato a tenere un diario cui diede il titolo di "Pensieri pontini e sardi". Si trattò di due quaderni, il primo dei quali si apriva con un pensiero dedicato al figlio Bruno. Diceva: "Oggi i miei pensieri vanno a Bruno. Nelle circostanze attuali sento ancora più profondamente la sua perdita. Un anno fa visitai la Maddalena fra l'entusiasmo della popolazione. Chissà, se oggi vi è qualcuno che ricorda mio figlio e quello che egli ha compiuto nella sua breve e meravigliosa vita. Venti anni di lavoro sono stati distrutti in poche ore. Mi rifiuto di credere che non ci siano più fascisti in Italia. Il Fascismo era un movimento che ha interessato il mondo e indicato nuove strade. E' impossibile che tutto sia distrutto. .. ".
    Sistemato nella nuova dimora ebbe il primo pasto: due pomodori e un po' d' uva, ma quando domandò di poter fare un bagno in mare e gli fu negato, si rese conto del rigore degli ordini ricevuti dai suoi "custodi".
    Il giorno 12, il generale Cerica, comandante dell'Arma, inviò il tenente Faiola, già comandante della tenenza di Bracciano, con l'incarico di sorvegliare il prigioniero, in sostituzione del tenente colonnello Meoli.
    Ecco come lo stesso ufficiale, in un memoriale che recava la data del 29 febbraio 1944, raccontò in quale maniera si svolsero i fatti. "Il giorno 9 agosto 1943 - fui introdotto dal Comandante generale, Eccellenza Cerica, il quale, personalmente, mi comunicò di avermi designato quale comandante del distaccamento carabinieri ed agenti preposti alla vigilanza di villa Weber, nell'isola della Maddalena, dove era stato condotto il Duce. Accennò, altresì, ai miei compiti particolari. così sintetizzandoli: nella eventualità di attacco da parte di malintenzionati o di agenti nemici: difesa ad oltranza, chiedendo rinforzi al Comando Marina...". In quella stessa giornata, il tenente Faiola fu anche ricevuto da Badoglio il quale volle dargli le "sue" istruzioni. Per il "prigioniero" la giornata del 13 agosto fu alquanto agitata: le notizie fornite dal bollettino di guerra di un pesante bombardamento della Capitale e di Milano, lo indussero ad un'amara annotazione sul suo diario. Gli avvenimenti si succedevano con una rapidità impressionante, provocando in tutti gli ambienti preoccupazioni e sgomento. Un fatto fu particolarmente indicativo dello sconcerto generale, la lettera, cioè, inviata dalla Medaglia d'Oro Raffaele Paolucci, celebre chirurgo e affondatore, insieme con Rossetti, durante la prima guerra mondiale, della corazzata austriaca "Viribus unitis", a Vittorio Emanuele III, nella quale gli ricordava che il 25 luglio, avvertito da Grandi del colpo di Stato che era in maturazione, gli aveva scritto raccomandandogli di evitare di nominare Badoglio come capo del governo. "Ho dovuto constatare - diceva il messaggio -  che Vostra Maestà, pur nolente, sia stata invece costretta dalle circostanze a subire la volontà dello Stato Maggiore, che, mi hanno detto, fu espressa in forma anche perentoria. . . Sono molti i pericoli che si delineano. . . I fuorusciti che ritorneranno in patria, porteranno con sé l'odio covato per vent'anni; essi non avranno che un desiderio solo: la vendetta, qualunque prezzo essa possa costare alla patria". E concludeva: "Di questo  passo, di recriminazione in recriminazione, come non temere che, salendo gradino su gradino, si vorrà arrivare fino al Trono ?" .
    Anche la Maddalena, però, come "sito di prigionia", è diventata insicura; lo fecero presente a Roma, prima il generale Basso, comandante delle forze della Sardegna, con una lettera al ministro Sorice, poi il generale della polizia del Comando Supremo, Saverio Polito, inviato espressamente sull'Isola dal capo della Polizia, Senise. Dopo tali segnalazioni, Polito, fu incaricato di scegliere un luogo adatto ma, dopo averlo trovato, sulla via del ritorno a Roma, ebbe un incidente d'auto che indusse il capo della Polizia Senise a sostituirlo con l'Ispettore Generale Gueli, definito un "funzionario di eccezionali qualità professionali" .
    Anche Gueli, in un memoriale, raccontò le sue vicissitudini. "Allorché mi convocò, il capo della Polizia mi chiarì che si trattava di salvaguardare la persona di Mussolini e di impedire, in tutti i modi, che i tedeschi lo rapissero. In tal caso, bisognava far fuoco sul prigioniero e fa trovare un cadavere. Risposi che ero un uomo di battaglia non un assassino e allora lui mi disse che della bisogna erano stati incaricati i Carabinieri. Badoglio, volle conoscermi e a presentarmi al Capo del Governo provvide Senise. Il Maresciallo ripeté a me la consegna già data a Polito e io, come Polito, assicurai che I'avrei fedelmente e, occorrendo, personalmente eseguita. Nella notte, trascorsa insonne, però, presi la mia decisione: poiché la sorte, fra milioni d'ltaliani restati fedeli al Duce, dava a me l'occasione favorevole, dovevo fare di tutto per salvarlo. L'indomani, mi recai in Sardegna e constatai che, per clima e per sicurezza Mussolini si trovava molto male. Se gli inglesi avessero avuto notizia della sua presenza alla Maddalena, avrebbero potuto facilmente impadronirsene o seppellirlo sotto le macerie della villa con quattro cannonate delle loro navi".
    Compiuto un rapido sopralluogo, rientrato a Roma e manifestate le sue perplessità circa la sicurezza del sito, Gueli fu spedito in osservazioni nei pressi dell'Aquila dove, in quel momento, non risultava che ci fossero truppe tedesche.
    Fu lui che stabilì, infatti, il trasferimento al Gran Sasso.
 
***
 
"Gli atti di valore compiuti da ufficiali o da soldati italiani dell'Esercito, sui fronti terrestri, sono tali da inorgoglire legittimamente la Nazione"
 
2a parte
 
    Il giorno di ferragosto, a Bologna, nella villa di proprietà di Luigi Federzoni, ci fu un ennesimo incontro italo-tedesco, al quale parteciparono, per l'Italia, i generali Roatta e Francesco Rossi e, per la Germania, il maresciallo Rommel e il generale Jodl. Durante il colloquio, assai teso, in risposta a una domanda di Jodl riguardante la verità a proposito dell'atteggiamento italiano, Roatta rispose "risentito": "Noi non siamo sassoni, non passiamo al nemico durante la battaglia".
    Un accenno storico fuori posto, poiché al nemico c'erano già passati. La lettera della M.O. Raffaele Paolucci al Re, indusse Vittorio Emanuele a redigere un promemoria per Badoglio, contenente una serie di giudizi chiaramente negativi sull'azione di governo del maresciallo. Il Sovrano insisteva che "non bisognava recriminare sul passato e non si dovevano escludere gli ex fascisti dalle pubbliche attività." "Ove il sistema iniziato perdurasse - scrisse fra l'altro - si arriverebbe all'assurdo di implicitamente giudicare e condannare l'opera stessa del Re..." Nessuno degli ammonimenti del Sovrano, però, arrivò a segno: Badoglio compiva imperterrito le proprie vendette, subiva le pressioni dei rappresentanti dell'antifascismo, decisamente antimonarchici, e aveva fretta soltanto di concludere l'armistizio per sottrarsi ad eventuali rappresaglie tedesche.
    Intanto l'ufficiale incaricato da Hitler di liberare Mussolini era stato informato che il Duce si trovava alla Maddalena. Skorzeny con il tenente Warger, che parlava alla perfezione l'italiano, si recò in Sardegna per studiare la situazione sul posto. Vestito da marinaio, Warger s'aggirò per le trattorie e i bar, attaccando discorso con chiunque incontrava. Imbattutosi in un fruttivendolo ambulante, dopo uno scambio di chiacchiere gli disse: "Io scommetto che Mussolini è morto!...".
    E l'altro: "Io, invece, scommetto che è vivo. ..". Fece una pausa e aggiunse: "Vieni, te lo faccio vedere..." e lo condusse, infatti nei pressi di Villa Weber: il caso volle che, in quel momento, il Duce fosse affacciato al balcone.
    Tornati a Roma per riferire, Skorzeny e Warger volarono di nuovo in Sardegna per gli ultimi ritocchi al piano ma mentre in aereo facevano rotta per la Maddalena due caccia inglesi, abbatterono il loro velivolo. Nella caduta in mare, Skorzeny perdette conoscenza e si ruppe tre costole, però si riprese quasi subito e con un battello di gomma, insieme con gli altri che si trovavano a bordo dell'Heinkel, riuscì a raggiungere uno scoglio, da cui vennero raccolti da una nave di passaggio. Hitler insisteva intanto per la liberazione del Duce.
    Dell'operazione, per la parte militare, si stava occupando il generale Student, protagonista delle più clamorose imprese dei paracadutisti tedeschi. Insieme con Skorzeny, Student si recò a Rastenburg, al Q.G. di Hitler dove, alla presenza di Goering, Doenitz, Keitel, Ribbentrop, Jodl e Himmler illustrò al Fuhrer i particolari del piano da attuare alla Maddalena dove, senza ombra di dubbio, disse Skorzeny, si trovava Mussolini. Hitler ascoltò con attenzione poi strinse forte la mano all'ufficiale delle "SS" e lo congedò dicendogli: "Vada, capitano Skorzeny; sono certo che riuscirà nell'impresa...".
    L'impresa doveva riuscire, ma non in Sardegna: infatti nella mattinata del 28 agosto, con un aereo, Mussolini era stato trasferito altrove. Del compleanno del Duce, il giorno 29 luglio s'era ricordato soltanto il Fuhrer che, tramite il maresciallo Kesselring, inviò 24 volumi con le opere complete di Nietzsche, preziosamente stampati e racchiusi in un cofanetto finemente intarsiato.
    A Roma, I'atmosfera politica si faceva sempre più rovente: in un clima di panico e di viltà, maturò anche l'assassinio dell'ex Segretario del PNF, la M.O. Ettore Muti, freddato di notte da un sicario della polizia nella pineta di Fregene, allorché andarono ad arrestarlo con il pretesto di un complotto contro lo Stato.
    Il Duce fu trasferito dalla Maddalena alI'alba del 28 e dopo un'ora e mezzo di volo, I'idrovolante ammarò all'idroscalo di Vigna di Valle, nel lago di Bracciano. Sul molo, aspettavano il "prigioniero", il successore di Polito, I'Ispettore di P.S. Giuseppe Gueli e un maggiore dei Carabinieri. Anche per quest'ultima tappa fu usata, come già un mese prima circa a Villa Savoia, un'ambulanza che, frettolosamente, imboccò la strada di Assergi. A Vigna di Valle, allo sbarco, alcuni soldati dell'"Ariete" che avevano riconosciuto Mussolini corsero ad avvertire il loro capitano che, radunati un po' d'uomini, si diresse all'idroscalo con il proposito di liberarlo. Quando però arrivò, I'ambulanza era già partita. All'Aquila ci fu una fermata d'obbligo; la macchina si guastò. Un tizio che s'era avvicinato, visto che si trattava del Duce, gli disse: "Sono un fascista di Bologna. Hanno cancellato tutto questi manigoldi, ma fatevi animo, non può durare...".
    Due giorni prima, il maresciallo Badoglio aveva recitato ai tedeschi un altro brano della sua ormai logora commedia. Aveva convocato il generale Enno Von Rintelen, addetto militare tedesco, e si era mostrato risentito per la sfiducia dimostrata da Berlino verso il suo Governo e in particolare nei suoi confronti, e, mettendosi la mano sul cuore, disse: "Da vecchio soldato mai verrò meno alla parola data!".
    Dopo una breve sosta ad Assergi, nella villa della contessa Rosa Mascitelli, appositamente requisita, il Duce, con la funivia, venne condotto in vetta al Gran Sasso e sistemato nell'albergo di Campo Imperatore, a quota 2112 metri, sgomberato dai turisti e requisito.
    Fu in quella circostanza che uno degli agenti di guardia gli fece sapere che Muti era stato ucciso, che fuori la confusione era enorme e correva voce che, prima o poi, sarebbe successo qualcosa di grosso.
    Le poche notizie che gli arrivavano, I'isolamento sempre più stretto e l'idea che Badoglio stesse tramando la sua consegna agli Alleati, rendevano Mussolini pieno di tristezza e di sconforto.
    In una lettera alla sorella Edvige, accennava a questi sentimenti e, particolare interessante, le comunicava di essersi ormai riaccostato alla religione sin dai giorni di Ponza. Parlava anche di un suo testamento, redatto nel maggio del 1943, e precisava che si trovava in una cartella sul suo tavolo a Palazzo Venezia. "Nato cattolico, apostolico romano - diceva alla sorella - tale intendo morire. Non voglio funerali e onori funebri di nessuna specie...".
    A Roma, per ordine di Hitler, era stato inviato, in sostituzione di Von Mackensen che si era lasciato sorprendere dagli avvenimenti del 25 luglio, come incaricato d'affari del Reich, Rudolf Rahn, il quale aveva già rappresentato diplomaticamente la Germania in Siria, in Tunisia e in Francia. Il primo incontro di Rahn con Guariglia fu burrascoso; I'inviato del Fuhrer disse esplicitamente al ministro degli esteri italiano "So con certezza che state trattando con gli Alleati. Attenti, però. Se lo farete alle nostre spalle, la rappresaglia sarà durissima!..." Anche in quell'occasione, come sempre, del resto, il ministro di Badoglio fece l'impossibile per nascondere la fitta trama di tradimenti e d'inganni che era in atto e assicurò il suo interlocutore che l'alleanza era più che mai salda e il destino comune intatto. Anche il generale Rintelen venne richiamato in Germania e al suo posto, quale ufficiale di collegamento con il Comando supremo, venne mandato il generale Toussaint.
    Molti personaggi del Regime fascista per sottrarsi all'arresto, dato che il Maresciallo Badoglio chiedeva orami alla polizia prestazioni tipo "mano nera", s'erano intanto rifugiati oltre frontiera nella zona dove si trovava il Q.G. di Hitler; fra essi c'erano Farinacci, Preziosi, Vittorio Mussolini, Pavolini, Orio Ruberti e Renato Ricci, mentre Ciano Edda e i figli si trovavano a Monaco.
    Degli anni folgoranti, testimoniati dalle grandi opere del Regime e dalla conquista dell'lmpero, non era rimasto più nulla; mai, come in quel periodo, ci si poté rendere conto che per gli italiani la storia era in genere contingenza, precarietà e passaggio.
    L'estate si avviava alla fine e con l'autunno, s'avvicinava per l'Italia la minaccia di altro sangue e di altre sventure.
    C'era dovunque atmosfera di agitazione e di pericolo ma, ciò nonostante, prima Guariglia, poi Badoglio insistettero con l'ambasciatore Rahn che nulla, nei rapporti fra Roma e Berlino, era mutato. Dopo che a Cassibile, anzi, era stato firmato l'armistizio, il maresciallo, ricevendo l'ambasciatore del Reich, gli disse: "lo sono il maresciallo Badoglio, uno dei tre più vecchi marescialli d'Europa. Sì, Mackensen, Petain e io siamo i più vecchi marescialli d 'Europa. La diffidenza del Reich nei riguardi della mia persona mi riesce incomprensibile. Ho dato la mia parola e la manterrò. Vi prego di avere fiducia...".
    All'uscita dall'udienza, Rahn commentò secco: "Si è rivelato talmente bugiardo che soltanto un sordo non se ne sarebbe accorto!".
    Per Hitler, la liberazione di Mussolini, cui, fra l'altro, si sentiva legato da sincera e profonda amicizia, fu ritenuta, all'indomani del colpo di Stato a Roma, un'operazione importante sia dal punto di vista politico che militare e per questa ragione teneva sul proprio tavolo una cartella ben in vista, sulla quale di pugno aveva scritto "Operazione Meyer".
    Il 6 settembre 1943, a resa già avvenuta e sottoscritta, ma tenuta ancora segreta per evitare rappresaglie da parte delle forze germaniche, a Roma si rammentarono dell'esistenza del "prigioniero" relegato in vetta al Gran Sasso, e Badoglio in persona, in preda a cupi presagi di sciagure, decise di convocare l'Ispettore di polizia Giuseppe Gueli, responsabile della "custodia" di Mussolini. A Gueli, il maresciallo chiese notizie del Duce e domandò, soprattutto, se non fosse stato il caso di trasferirlo in altro sito dal momento che non era più un segreto la sua presenza a Campo Imperatore. "Che si trovi lassù - disse infatti il capo del governo - lo sanno ormai tutti e la notizia è stata diffusa dai villeggianti costretti a lasciare l'albergo e a scendere a valle...".
    Gueli lo rassicurò e il maresciallo non aggiunse altro; tanto meno modificò o attenuò l'ordine impartito a suo tempo di far fuoco magari sul prigioniero se qualcuno avesse tentato di liberarlo e quel "qualcuno", non v'è dubbio, si riferiva soltanto ai tedeschi.
    I movimenti delle forze germaniche, specie attorno alla Capitale, erano tutt'altro che tranquillizzanti e chi mostrò di preoccuparsene quanto e più, forse, dello stesso Badoglio che vedeva nemici dappertutto, fu il capo della Polizia Senise il quale decise di discuterne, al Viminale, con il Ministro delI'lnterno, Umberto Ricci, per considerare, fra l'altro, I'opportunità, data l'imminenza del disastro, di annullare l'ordine di "uccidere" Mussolini piuttosto che lasciarlo fuggire. Sia il Ministro che il capo della Polizia consapevoli ormai del rapido deteriorarsi della situazione, decisero, di comune accordo, di telefonare a Gueli e di ordinargli di "regolarsi con prudenza", che significava, pure se non detto esplicitamente, "accetta il fatto compiuto ed evita di sparare al prigioniero". Non è improbabile che in quel momento, preso da una crisi di coscienza, Carmine Senise abbia anche ricordato ciò che telegrafò a Palazzo Venezia allorché, il 20 novembre del 1940, assunse la carica di capo della P.S. "Vi prometto, Duce - diceva infatti il messaggio - di servirvi con fedeltà e rettitudine Vogliate vedere, in questa promessa, la mia profonda devozione e la riconoscenza infinita che ho per Voi".
    Per ordine del Führer, intanto, il generale Student e il capitano Otto Skorzeny, sicuri della presenza di Mussolini al Gran Sasso, prepararono l'intervento, consistente in una fulminea azione di parà, compiuta dall'aria mediante una decina di alianti. Mentre erano in atto i preparativi militari l'incaricato d'affari tedesco, Rudolf Rahn autorizzato da Ribbentrop, tentò, in extremis, un passo diplomatico nella speranza di chiarire, una volta per tutte, i rapporti con il governo italiano, sempre più ambiguo e sfuggente.
    Domandò udienza direttamente al Re, deciso a chiedere al Sovrano quanto ci fosse di vero nelle voci, ormai insistenti, che l'Italia aveva firmato un armistizio con il nemico oppure si accingeva a farlo.
    Anche in quella circostanza, però, Rahn si trovò davanti a un muro di gomma. Vittorio Emanuele, infatti, ricevette l'ambasciatore del Reich prima di presiedere il Consiglio della Corona, convocato su richiesta di Badoglio e sebbene fosse già al corrente che in giornata sarebbe stato dato l'annuncio delI'armistizio, come la notte prima aveva comunicato il generale americano Maxwell Taylor durante il suo viaggio segreto a Roma, disse in tono impegnativo:
    "L'ltalia non capitolerà mai. Badoglio è un vecchio e bravo soldato a cui riuscirà certamente di arrestare, come si deve, la pressione delle sinistre...". E dopo una pausa, facendo sicuramente forza a se stesso, aggiunse: "Fino alla fine continueremo la lotta a fianco della Germania con la quale siamo legati per la vita e per la morte. . . " .
    Riferite immediatamente a Berlino, le dichiarazioni di Vittorio Emanuele III, ormai fuori tempo e fuori luogo, contribuirono a rendere più gelidi i rapporti fra i due Paesi, a mandare Hitler sulle furie, a convincerlo della necessità di applicare senza esitazione il famoso piano "Achse", messo a punto per fronteggiare la ventilata capitolazione delI' Italia e, nel contempo, ad affrettare l'intervento per la liberazione di Mussolini, sicuro che il maresciallo Badoglio, per ingraziarseli, non avrebbe esitato a consegnarlo agli Alleati.
    Il capo di S.M.G. gen. Ambrosio partì il giorno 6 settembre per Torino dove aveva da sbrigare alcuni affari privati, e mancò pertanto l'incontro con il generale Taylor, giunto in gran segreto nella capitale durante la notte fra il 7 e l'8 settembre per discutere, con le autorità militari italiane, I'intervento di una divisione aviotrasportata nei pressi di Roma. Assente il capo di stato maggiore generale, I'ufficiale americano si intrattenne a lungo con il generale Carboni, il quale, prospettategli le difficoltà della situazione, insistette perché I ' aerosbarco venisse rimandato o, meglio, annullato. Dopo una lauta cena, Taylor fu condotto anche a villa Badoglio: il maresciallo, che era già a letto, lo ricevette in pigiama e si associò a Carboni nel chiedere l'annullamento dell'operazione poiché, a suo dire, i tedeschi attorno a Roma erano ormai numerosi e minacciosi. Di suo, Carboni aggiunse che le forze italiane non avrebbero potuto intervenire perché prive di... carburante. Anche in quella circostanza fu chiaro che oltre a una totale mancanza di senso di responsabilità da parte di chi stava ai vertici del potere, ad ogni livello esisteva una tremenda paura fisica dell'AIleato tradito.
    Gli eventi precipitano: gli italiani al bivio 
    II "prigioniero" Mussolini aveva già raggiunto la nuova sede immersa in un silenzio vasto e intenso.
    Sul Gran Sasso, il buio cadeva presto e improvviso cancellando, come con un colpo di spugna, le vette ridotte a roccia nuda. Le giornate s'annunciavano tutte uguali anche se l'atteggiamento degli uomini di guardia dava a supporre che prima o poi qualcosa sarebbe accaduto. Al Duce, che consumava da solo i pasti, la sera veniva concesso di ascoltare la radio e talvolta di giocare a carte con i funzionari addetti alla sua sorveglianza. I bollettini di guerra, nonostante l'arzigogolo delle frasi, non potevano più nascondere la gravità della situazione. Ad accentuare comunque l'atmosfera di precarietà, già abbastanza pesante, concorsero due fatti che al Duce certamente non sfuggirono; la sistemazione di alcune mitragliatrici a difesa dell'albergo e una esercitazione a fuoco compiuta dagli agenti di guardia sulle cime attorno al pianoro di Campo Imperatore. La prigionia aveva fisicamente trasformato Mussolini e scavato in profondità nel suo animo. Di intatto aveva soltanto quei suoi occhi che mettevano lo scompiglio negli interlocutori.
    Il mattino dell'8 settembre, il tenente Faiola presentò al Duce un pastore che forniva i latticini per la mensa del prigioniero e dei guardiani, il quale gli disse: "/ tedeschi sono già alle porte di Roma. Se il governo non è fuggito, poco ci manca. Noi della campagna siamo rimasti tutti fascisti; nessuno ci ha dato fastidio. Parliamo sempre di Voi; ci hanno raccontato che eravate scappato in Spagna, che vi avevano ucciso, che eravate morto durante un'operazione in un ospedale di Roma, mentre altri sostenevano che vi avevano fucilato al Forte Boccea. Quando racconterò a mia moglie che vi ho visto, dirà che sono matto...".
    "Mentre il prigioniero discorreva con il pastore, alto, in cielo, comparve un aereo che si attardò sulla zona. A bordo c'era Skorzeny con due collaboratori i quali fotografarono il sito in cui avrebbero dovuto atterrare gli alianti con i parà incaricati delI'operazione "Meyer". Quando l'ufficiale fece ritorno a Frascati, al Q.G. di Kesselring, trovò la cittadina distrutta da un massiccio bombardamento americano, compiuto a conferma, secondo il gen. Taylor che in giornata sarebbe stato annunciato l'armistizio. Cosa che avvenne, infatti, nel tardo pomeriggio, dopo un concitato consiglio della Corona, tenutosi al Quirinale, nel corso del quale nessuno, stranamente, parlò della difesa di Roma. Poco prima, anzi, che Badoglio si recasse all'Eiar per leggere il suo "messaggio", il segretario generale del Ministero degli esteri, ignaro di quanto era accaduto, smentì all'ambasciatore Rahn le notizie, provenienti da Radio Londra, riguardanti la capitolazione dell'Italia.
    A Rastenburg, in Prussia Orientale, dove aveva il suo Quartier Generale, Hitler era furibondo. A Keitel e a Ribbentrop, convocati d'urgenza, disse con la voce alterata dall'ira: "Un re e un maresciallo d'ltalia hanno mentito spudoratamente. Non più tardi di poche ore fa hanno impegnato la loro parola d'onore sapendo che era falsa. Un tradimento simile non ha precedenti nella storia dei popoli. L'Italia è passata al nemico in pieno campo di battaglia!...".
    Fu l'inizio di uno dei periodi più oscuri e avvilenti della storia italiana. I responsabili, terrorizzati, fuggirono; I'Esercito andò in briciole; I'intera Nazione finì allo sbando.
    Quando il 10 settembre mattina parve, per qualche ora, che i tedeschi avessero difficoltà ad occupare Roma, il capo della polizia Senise, rinfrancato, telefonò a Campo Imperatore e avvertì l'lspettore Gueli che, da come si mettevano le cose, era opportuno considerare ancora valida la disposizione riguardante il "prigioniero", caso mai i tedeschi tentassero di liberarlo. In altre parole, consegnarglielo ma morto!
    Secondo la testimonianza di un sottufficiale dei Carabinieri, il 9 e il 10 settembre furono, per Mussolini, giornate pesanti ed agitate. Ad attimi di disinteresse, addirittura di assenza da quanto lo circondava, succedevano momenti di viva preoccupazione e l'ansia gli si leggeva sul volto. A qualcuno, infatti, disse: "Nella mia disgrazia può ancora accadermi qualcosa di peggio di quanto fin qui ho sofferto. Purtroppo, ho l'impressione che, a tradimento, vogliano consegnarmi agli inglesi, ma gli inglesi non mi avranno vivo...".
    A questo punto vale la pena di riportare il promemoria redatto dal tenente Faiola in data 29 febbraio 1944: "La sera del 10 settembre, ascoltando la radio, il Duce apprese che fra le clausole dell'armistizio era compresa la consegna della sua persona al nemico. Ne rimase impressionato e, chiamatomi nella notte, esternò a me, che sapeva reduce dalla prigionia inglese, tutta l'apprensione che gli causava tale notizia, dicendomi, anche, che avrebbe preferito darsi la morte piuttosto che subire una simile onta. Ritenni mio dovere non solo rassicurarlo che nessun ordine al riguardo era a noi pervenuto ma di promettergli, anzi di giurargli, che, di fronte a simile eventualità, io lo avrei guidato e protetto in una fuga attraverso le montagne. Soltanto dopo questo mio così solenne impegno, egli consentì a coricarsi e potei lasciarlo veramente tranquillizzato...".
    In effetti si trattò di una tranquillità alquanto passeggera poiché spesso durante la notte si alzò, camminò a lungo per la stanza e accese e spense più volte al luce, a dimostrazione di un nervosismo che non gli dava pace. Fu in quella circostanza, anzi, che maturò il proposito del suicidio risoltosi però in un tentativo senza conseguenze per via dell'immediato intervento dei Carabinieri di guardia.
    La confusione a Roma cresceva e, via via, le truppe tedesche, dilagavano su tutto il territorio italiano. Al Gran Sasso, c'era atmosfera di incertezza e di attesa. Tutti sapevano, ormai, della fuga del Governo, della scomparsa della famiglia reale e della disastrosa situazione del Paese. Nella notte dall'11 al 12, Mussolini scrisse una lettera al tenente Faiola per avvertirlo che "mai gli inglesi lo avrebbero avuto vivo". Cosa diceva in quelle poche righe con le quali annunciava di aver deciso di darsi la morte?
    Qualcuno, sembra un uomo di guardia, le ricopiò e, quando le rivelò, giurò che erano state trascritte fedelmente. "Ore 3 del 12 settembre 1943. Caro Faiola, credo di avere in voi un buon amico. Sono certo di essere consegnato agli inglesi da un momento alI'altro. Il fatto che non siano pervenuti ancora ordini in tal senso, non esclude che possano giungere da un momento all'altro. Voi siete un soldato e perciò vi rendete conto, ancora meglio di me, quel che significa cadere in mano al nemico. Non voglio sottomettermi a tale umiliazione e vi prego quindi di farmi avere una pistola. Grazie e addio".
    Nella sua veste di tenente dei Carabinieri, Faiola non poté accogliere tale richiesta e allora, quasi certamente, in quel momento, Mussolini decise di svenarsi con una lametta del suo rasoio di sicurezza. Fra i primi ad accorrere, fu il maresciallo Osvaldo Antichi ed è suo il racconto di ciò che vide entrando nella stanza del Duce. "Lo trovai seduto sulla sponda del letto - scrisse - con le braccia abbandonate e gli occhi sbarrati. Dai polsi, gli scendeva un rigagnolo di sangue. Sul comodino c'era una lametta da barba e, aperto, il rasoio Gillette, quello stesso che gli aveva mandato, a Ponza, Donna Rachele. Erano accorsi altri carabinieri e il tenente Faiola. Con dello spago gli legai strettissimi gli avambracci per bloccare l'emorragia. Faiola fece cassetta di pronto soccorso; poi, con una garza, gli medicammo le ferite".
    Presso il comando tedesco, intanto, esaminate le foto aeree scattate da Skorzeny, fu deciso l'intervento con l'uso di alcuni alianti. Il piano venne sottoposto a Student che, dopo averlo approvato, ordinò il trasferimento dalla Francia a Pratica di Mare di 12 alianti.
    Come fosse congegnata l'operazione me lo raccontò il responsabile militare, il maggiore paracadutista Mors che, finita la guerra, incontrai a Esslingen, dove viveva da civile, facendo il maestro di ballo. "A quelI'epoca - disse - comandavo un gruppo di paracadutisti, nella zona di Frascati; il mio battaglione, faceva parte delle forze che erano alle dipendenze del generale Student. Alle 15 del giorno 11 settembre del 1943, nella tenda del comandante Harald, nel parco del collegio Mondragone, squillò a lungo il telefono. Per ordine del generale dovevo presentarmi al comando. Appena arrivato, Student mi comunicò che all'indomani mattina, alle sette, avrei dovuto recarmi nella zona del Gran Sasso per liberare Mussolini. "Con due compagnie - mi disse il generale - scendete nella vallata di Assergi, e successivamente, provvedete ad attaccare l'albergo che si trova appollaiato sui dirupi della vetta. Avete assoluta libertà di movimento...". Tracciati a grandi linee i presupposti dell'operazione, toccava a me curarne i particolari, il tempo a disposizione era poco. Andai all'ufficio informazioni e seppi, fra l'altro, che l'azione era stata battezzata "Bruno Meyer". Date le asperità della zona, i rischi erano molti e in particolare per la sua posizione, I'albergo si prestava ad essere difeso da ogni lato come un vero e proprio fortino. Passai la notte ad approntare il reparto. Seppi, in quella circostanza, delI'arrivo a Pratica di Mare di Skorzeny, un ufficiale delle "SS", addetto al servizio di sicurezza di Hitler, specialista nel risolvere situazioni ingarbugliate e nel compiere colpi di mano come quello che ci accingevamo a realizzare. Con Skorzeny, erano arrivati anche una trentina di soldati delle "Waffen SS" che vennero aggregati al mio battaglione. Sapevamo che al Gran Sasso erano state disposte sentinelle con l'ordine di aprire il fuoco contro chiunque avesse tentato di avvicinarsi all'albergo in cui tenevano rinchiuso Mussolini. Il piano che preparai era piuttosto semplice: una compagnia, al comando del tenente Berlepsch, la migliore del reparto, doveva calarsi nei pressi delI'albergo e, con una azione di sorpresa, liberare il Duce. Altre forze dovevano invece impadronirsi della funivia mentre il grosso del battaglione, al mio comando, aveva il compito di occupare la vallata di Assergi e la stazione...". Su suggerimento di Skorzeny, per evitare sorprese da parte dei guardiani, fu deciso di aggregare ai paracadutisti un generale della polizia italiana e la scelta cadde sul generale Fernando Soleti.
    "Conclusa l'operazione - proseguì il maggiore Harald Mors - dovevamo rientrare a Roma. Il tragitto da percorrere per raggiungere il posto di raccolta si aggirava sui 240 chilometri. L'ordine era di tener celato il più possibile il movimento. Quando mi recai da Student per esporgli il piano, il generale in linea di massima l'approvò ma non fu d'accordo per quanto riguardava il trasferimento di Mussolini che io volevo portare nella Capitale con una delle mie macchine blindate".
    "Vi darò il capitano Gerlach, il mio pilota - disse il generale - Con una "Cicogna" atterrerà vicino all'albergo e caricherà il Duce. Il viaggio deve avvenire per via aerea. Fra l'altro, il Fuhrer vuole vedere al più presto Mussolini e mi ha ordinato di tenere segretissima la cosa. Per questa ragione, neppure il maresciallo Kesselring ne è stato informato...".
    "E il capitano Skorzeny?" - domandai a Student.
    "Sarà il vostro consigliere politico. Non dobbiamo dimenticare che è stato mandato direttamente dal Quartier Generale del Fuhrer. . . ".
    "E i suoi uomini?" - domandai ancora.
    "Sedici del suo gruppo - rispose il generale - verranno aggregati ai vostri parà...".
    Alle 23 e trenta del giorno 11 settembre, al comando di Student e nella mia tenda si discuteva ancora su chi avrebbe dovuto accompagnare Mussolini, a bordo dell'aereo di Gerlach. Fu Student che decise per Skorzeny motivando la sua decisione con il fatto che l'ufficiale delle "SS" era conosciuto da tutti gli alti personaggi del seguito di Hitler".
    La mattina del 12 settembre il cielo sul Gran Sasso era carico di nubi filacciose e color cenere che impedirono di vedere i velivoli che giravano sulla zona. Dalla valle, saliva una foschia azzurra che faceva da schermo all'asprezza delle cime esistenti attorno al pianoro. Verso mezzogiorno, comunque, uscì il sole e le nubi sparirono. Mussolini, agitato e nervoso, all'ora della colazione non toccò cibo.
    A Pratica di Mare alle 13, nonostante un' ora prima ci fosse stato un bombardamento aereo, nove velivoli decollarono alla svelta con agganciati altrettanti alianti, e puntarono verso il Gran Sasso. Nel decollo, due alianti si danneggiarono e dovettero rinunciare all'impresa. L'atterraggio nel sito prescelto in base alle fotografie, avvenne in maniera che non è esagerato definire drammatica; i veleggiatori dovettero compiere infatti una brusca picchiata al termine della quale ebbero un rude impatto con il terreno piuttosto accidentato. Nel primo aliante, c'erano Skorzeny e il generale Soleti che, appena a terra, si diressero di corsa verso l'albergo. Erano le 14 precise. Mussolini, seduto davanti alla finestra della sua stanza, con il cuore in gola, assisteva all'operazione. Sul principio, mentre gli apparecchi si avvicinavano, il Duce ebbe l'impressione che si trattasse di velivoli inglesi e che si compisse quanto aveva appreso dalla radio circa la sua sorte. Uno degli alianti si fermò a pochi metri dall'albergo.
    Ne scesero cinque uomini in uniforme caki i quali piazzarono due mitragliatrici, puntate verso l'edificio. All'interno, fu dato l'allarme e tutti i carabinieri, armi in pugno, si precipitarono fuori mentre il tenente Faiola irruppe nella camera di Mussolini e gridò: "Chiudete la finestra e non muovetevi!". L'ordine non fu naturalmente eseguito e quando il Duce scorse Soleti e Skorzeny gridò: "Non vedete? C'è un generale italiano. Non sparate!". I carabinieri non esitarono ad abbassare le armi.
    Il maggiore Mors dal basso, con il binocolo vide gli alianti mentre prendevano terra e, dando un' occhiata al suo orologio, notò che erano le 14 e 17 minuti. In quell'istante, un ufficiale del Genio gli comunicò che l'operazione era perfettamente riuscita.
    "A mia volta - mi raccontò Mors - domandai in che stato era il prigioniero. Vivo o morto ?".
    "Vivo!" fu la risposta. "Stazione del Monte occupata" - mi annunciò un'altra voce. E io "Resistenza ?".
    "Nessuna" - ribatté Berlepsch.
    "Perdite?" - chiesi ancora.
    "Nessuna! Mussolini sta preparando le valigie".
    Salii anch'io in vetta con la funivia. In pochi passi, raggiunsi l'albergo. Davanti alla porta di servizio abbaiavano alcuni cani. Gerlach con la sua "Cicogna" si apprestava ad atterrare. Nello spiazzo, attorno all'albergo, c'erano gli alianti di Berlepsch. Solo uno era fracassato e nell'urto il pilota aveva riportato leggere ferite...".
    Ecco il racconto di Skorzeny. "Dopo aver intimato a un carabiniere "mani in alto!" mi precipitai all'interno dell'edificio dove un soldato stava armeggiando intorno alla radio. Con il calcio della pistola mitragliatrice ruppi l'apparecchio. Imboccate le scale, salii al primo piano e, a caso, spalancai una porta. Era quella della stanza del Duce. Con Mussolini c'erano due ufficiali italiani che il mio aiutante, il tenente Schwerdt, mandò fuori della camera. Intanto, arrampicatisi lungo il parafulmine, due sottufficiali raggiunsero il vano della finestra. Scambiai il tenente Faiola per un colonnello e gli intimai di arrendersi. Faiola non fiatò. Uscì, anzi, e tornò poco dopo con un bicchiere di vino rosso. Me l'offrì e disse: "Al vincitore!". Il Duce era sempre in piedi in un angolo della stanza. Mi accostai e gli dissi: "Duce, il Fuhrer mi ha inviato qui per liberarvi!" lui mi abbracciò e con la voce rotta dalla commozione ribatté "Sapevo che il mio amico Adolfo Hitler, non mi avrebbe abbandonato".
    Disarmammo i carabinieri, ma agli ufficiali lasciammo la pistola. Cominciammo i preparativi per la partenza. Carabinieri e paracadutisti, alla meglio, spianarono il terreno per il decollo...".
    Nel frattempo, con la teleferica era arrivato anche il maggiore Mors. "Mussolini - fu il suo racconto - indossava un cappotto scuro su un abito blu, gualcito e lucido. In testa portava un cappello con la tesa tirata sugli occhi. Il suo aspetto, così dimesso e affaticato, mi fece impressione. Era pallido, aveva l'espressione dell'uomo avvilito e sofferente. Mi presentai e gli dissi: "Dobbiamo portarvi al più presto al Quartier Generale del Fuhrer". Mi guardò e mi stese la mano. Ripeté quasi a se stesso, con una voce che era un soffio. "Sapevo, sapevo che non mi avrebbe abbandonato!" Scrollò un attimo il capo e aggiunse: "Il mio rammarico è di essere stato liberato da soldati germanici, anziché da combattenti italiani". Ci avviammo all'uscita. Sulla soglia, rivolgendosi ai miei uomini e indicando i carabinieri disse: "Lasciateli liberi. Non fateli prigionieri. Sono brava gente!" Gli risposi che avrei fatto come desiderava. Mentre ci dirigevamo all'aereo, coloro che mezz'ora prima gli facevano da carcerieri, gli si affollarono attorno e lo salutarono alzando il braccio.. . ".
    Il pilota Gerlach se ne stava in disparte e osservava il poco spazio in cui avrebbe dovuto decollare. Insistette per avere a bordo soltanto il Duce, ma era stabilito che con lo "Storch" sarebbe partito anche Skorzeny.
    "È troppo pesante - insisteva - non me la sento di tentare il decollo". L'intervento di Mors fu determinante: "Questi sono gli ordini del generale Student. Parti al più presto!.. . ".
    Salito sull'aereo, Mussolini si allacciò la cintura e aspettò che Skorzeny prendesse posto. Un vento impetuoso soffiava verso la valle, rendendo quasi impossibile la manovra. La pista era brevissima. Gerlach diede motore al massimo mentre i soldati trattenevano il velivolo per la coda. A un suo cenno, lo lasciarono. "Tutti - mi raccontò Mors - seguimmo la corsa della  "Cicogna" con il cuore in gola. A un tratto, sembrò che l'apparecchio s'infilasse nell'abisso. Corremmo tutti sull'orlo della scarpata, convinti di vedere l'aereo precipitare a muso all'ingiù e invece lo scorgemmo come sospeso nelI'aria, quasi immobile, con le sue grandi ali e il carrello, simile alle zampe di un'enorme farfalla. Pian piano, a fatica, prese quota e iniziò il volo verso Pratica di Mare".
    Il 20 settembre del 1943, ritenendo che Mussolini fosse ormai in mano agli angloamericani, un impresario teatrale inglese, un certo Stodel, inviò da Città del Capo, (Sud Africa), il seguente telegramma al generale Eisenhower: "Offro dono 10 mila sterline al fondo di guerra se disponete che Mussolini compaia personalmente sulle scene dei nostri teatri di Città del Capo. Impegno per tre settimane...".
    Il disappunto degli Alleati per il colpo del Gran Sasso fu enorme. Churchill, alla Camera dei Comuni, nel corso di una dichiarazione sulla situazione politica e militare disse, a proposito della liberazione del Duce: "Avevamo ogni ragione di credere che Mussolini si trovasse in luogo sicuro e ben custodito, ed era certo nell'interesse del Governo Badoglio di non farselo scappare. Mussolini stesso, a quel che si dice, avrebbe dichiarato che credeva di venir consegnato agli Alleati. Questa era I'intenzione e si sarebbe anche realizzata, se non fossero intervenute circostanze del tutto indipendenti da noi...Il colpo fu molto audace... Non credo che ci fosse trascuratezza o malafede da parte del Governo Badoglio il quale, però, si era tenuto un'altra carta da giocare: i carabinieri di guardia avevano avuto l'ordine di sparare su Mussolini nel caso si tentasse di liberarlo, ma vennero meno al loro dovere in vista delle considerevoli forze tedesche piombate giù dal cielo, le quali li avrebbero indubbiamente tenuti responsabili della vita di lui e della sua sicurezza...". Dichiarazioni, queste del Premier britannico dell'epoca, che non hanno bisogno di commento.
 
FINE
 
 
STORIA VERITA’ N. 15 e N.16. Maggio-Giugno e Luglio-Agosto 1995. Editrice Settimo Sigillo (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

 
 
GRAN SASSO, 50 ANNI DOPO 12 settembre 1993. In merito al convegno sulla liberazione del Duce*
Donatello Mancini
 
 
    Non intendiamo qui discutere della vicenda storica, perché di questa ne fa ampia ed esauriente rievocazione Luigi Romersa in questa rivista, ma piuttosto delle evidenti finalità che gli organizzatori del convegno, il moderatore e i relatori si sono preoccupati di perseguire.
    Tutti gli avvenimenti che si sono succeduti nei 48 giorni che vanno dall'arresto di Mussolini a Villa Savoia alla sua liberazione da Campo Imperatore, sono da tanti anni sufficientemente noti e ben documentati.
    Basti ricordare i "Due anni di Storia, 1943-45" di Attilio Tamaro, del 1948; i "7 anni di guerra" di Pietro Caporilli, del 1963; e il "Contromemoriale" di Bruno Spampanato, del 1974.
    Da allora, a seguito delle interviste raccolte dai due principali protagonisti, il magg. Skorzeny e il magg. Mors, è stato possibile delineare meglio i contorni dell'intera operazione, senza che in nessun modo si potesse contraddire lo spirito e la veridicità del primo annuncio diramato il 12 settembre da Berlino:
    "Il Deutsches Nachrichten Bureau ha diramato il seguente comunicato straordinario: "dal Quartier Generale del Fuehrer, 12. Reparti di paracadutisti e di truppe di sicurezza germanici, unitamente a elementi delle SS, hanno oggi condotto a termine una operazione per liberare il Duce che era tenuto prigioniero dalla cricca dei traditori. L'impresa è riuscita. Il Duce si trova in libertà.
    In tal modo è stata sventata la sua progettata consegna agli anglo-americani da parte del governo Badoglio". Così l'Agenzia Stefani".
    Solo in seguito la stampa tedesca puntava l'attenzione sul cap. Skorzeny quale "liberatore" del Duce e, per questo, decorato da Hitler e promosso di grado.
    L'impresa aveva provocato nel mondo una grande risonanza anche per le ripercussioni che l'avvenimento avrebbe potuto imprimere sull'andamento della guerra. Si sviluppò, così, il mito di Skorzeny, anche per le successive eccezionali imprese di cui fu protagonista.
    Tornando al convegno sul Gran Sasso del settembre u.s. apparve subito chiaro ai presenti che si voleva sostenere la tesi che Skorzeny, già rimpatriato dalla Russia per dissenteria e assegnato ai servizi sedentari, quasi per caso presente sul Gran Sasso, magari come osservatore, non era stato il liberatore di Mussolini. Anzi, uno dei relatori perfezionava il concetto definendolo "un furbacchione" che aveva approfittato della situazione per prendersi tutto il merito e che Hitler e Goebbels avevano tutto l'interesse ad accendere i riflettori su un ufficiale delle SS. Questo può anche essere vero, ma il primo comunicato diffuso lo stesso giorno, ripartisce fra tutti il merito dell'impresa, che resta un vanto dell'organizzazione e dell'efficienza germanica.
    Nel corso degli anni, a guerra finita, per la demonizzazione sviluppatasi intorno al partito nazista e alle SS e per la comprensibile esigenza da parte del Corpo dei paracadutisti di reclamare il giusto merito s'è sfumato il ruolo di Skorzeny.
    Anche il magg. Mors, poi divenuto colonnello, invitato al convegno ha forse calcato la mano su questa interpretazione.
    Ma l'elemento essenziale della vicenda, è la fiducia giustamente nutrita da Hitler in Skorzeny e la categorica consegna affidatagli di ricondurgli salvo Mussolini, dopo aver individuato il luogo della prigionia. Altrimenti non vi sarebbe stata la sua partecipazione alla fase finale nè la parte del terzo incomodo sulla "Cicogna".
    Anche i relatori al convegno si sono preoccupati di privilegiare il ruolo dei paracadutisti.
    Al solo scopo di rispettare la verità dei fatti, abbiamo raccolto la testimonianza del sig. Domenico Antonelli, reduce dal fronte greco dove era stato decorato e poi congedato per ferita in combattimento. Aveva ripreso il suo incarico di istruttore di sci a Campo Imperatore e, in quei giorni, in assenza del titolare, aveva assunto le funzioni di direttore dell'albergo. Come tale fu spettatore attento di quanto si svolse dal momento dell'arrivo degli alianti sino a quando, seguendo dappresso il personaggio che appariva il comandante dell'operazione, giunse con lui nella stanza dove Mussolini era in attesa.
    Ricordando con estrema lucidità ogni particolare, il sig. Antonelli precisa che il convincimento sul ruolo avuto da Skorzeny nelle rapide fasi dell'azione, derivava dal fatto che era lui che dava gli ordini che tutti si affrettavano ad eseguire, che per primo entrò nell'albergo e poi nella camera di Mussolini. Anche l'Antonelli entrò nella camera e assistette al colloquio, svoltosi in tedesco, in un'atmosfera di grande commozione.
    La sua statura, l'essere il più elevato in grado tra gli attaccanti, la fama che l'accompagnava, l'appartenenza ai servizi speciali, l'incarico direttamente affidatogli da Hitler, avevano naturalmente determinato sul campo una precisa gerarchia, tanto che il ten. Faiola, che comandava i carabinieri di guardia, a lui offrì del vino, quale omaggio offerto al "vincitore".
    La testimonianza del sig. Antonelli, coincide con quanto narrato nell'articolo di Romersa, e riporta nei giusti termini una operazione, da tutti brillantemente condotta e conclusasi senza vittime.
 
 
    * Il convegno, promosso dal Dr. Alessandro Pini, è stato patrocinato dalla Azienda di soggiorno dell'Aquila. Relatori: Sergio Zavoli, Arrigo Petacco, Antonio Spinosa, Marco Patricelli.
 
 
STORIA VERITA’ N.16. Luglio-Agosto 1995. Editrice Settimo Sigillo (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
 

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